La Repubblica degli Italiani



Nonostante i suoi molti e gravi vizi, la nostra è stata la Repubblica degli italiani, la Repubblica che abbiamo riconosciuto come nostra al di sopra dei contrasti politici e sociali, delle diversità culturali e linguistiche e delle barriere geografiche. La ragione della sua forza unificante è da rintracciare nella “svolta di Salerno” quando, all’indomani dell’8 settembre, i partiti antifascisti accettarono di entrare in un governo nominato dal re e si assunsero le pesanti responsabilità della transizione. Quel lontano patto unitario che vedeva come protagonisti i partiti politici, spiega Agostino Giovagnoli (La Repubblica degli italiani Laterza), è stato dunque il vero momento fondativo della Repubblica dal quale è opportuno partire per capire la nostra storia e ricavare qualche utile lezione per i problemi politici che stiamo affrontando.  

Il popolo italiano è profondamente plurale, ha vissuto molteplici storie, ha sofferto fratture e contrasti tenaci. Eppure, in taluni momenti della sua storia, ha saputo costruire momenti costituenti grazie all’incontro di forze politiche diverse. Il primo è stato il “connubio” del 1852, vale a dire la convergenza al centro realizzata da Cavour e Rattazzi nel parlamento piemontese. Grazie a quell’accordo, l’élite politica italiana divisa in monarchici e repubblicani, liberali e democratici, moderati e radicali, riuscì a delineare un terreno comune d’azione che trasformò la sconfitta del 1848 nel successo del 1859-1861. Quando invece, come avvenne dopo la Prima Guerra Mondiale, i partiti non seppero dar vita a momenti costituenti, l’Italia ha vissuto la tragica esperienza della sconfitta della libertà.
L’altro momento in cui partiti politici diversi hanno saputo lavorare insieme per un comune progetto è stato l’Assemblea Costituente che seppe portare a termine il suo compito nonostante lo scoppio della Guerra Fredda e l’inizio della contrapposizione fra comunismo e anticomunismo. Dall’esperienza costituente nacque quella “cultura della coalizione”, come la definì lo storico Roberto Ruffilli, che sostenne le coalizioni centriste, e le coalizioni di centro-sinistra.  Quelle coalizioni non erano semplici maggioranze parlamentari o coalizioni elettorali, ma convergenze che avevano alle spalle una comune eredità storica e culturale condiviso e condividevano una comune prospettiva. Coalizioni di questo tipo, osserva Giovagnoli sono finite nel 1975 e da allora inizia la crisi della politica  italiana.
Nella democrazia consensuale nata dalla “cultura della coalizione”, la Democrazia cristiana rivendicava la centralità che derivava dalla sua forza elettorale, ma non cercò mai di governare da sola. Guidata da Alcide De Gasperi, che Giovagnoli definisce “padre della Repubblica”, non si propose né di fare dell’Italia una repubblica cattolica, come lo spingevano a fare ambienti vicino al Vaticano, né di escludere il Partito Comunista dalla vita politica, come auspicava la destra cattolica.
 Ma “democrazia consensuale” non coincide affatto con “democrazia, debole, incerta, non governante”. Nonostante fossero governi di coalizione e il presidente del Consiglio fosse un primus inter pares che non aveva un potere di controllo assoluto né sul partito, né sulla coalizione, né sul Parlamento, i  governi centristi, governarono, eccome, e realizzarono importanti riforme, come ad esempio la riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno. Il medesimo discorso vale per i primi governi di centro-sinistra.
 De Gasperi, al IV Congresso della DC, nel 1952, a parlò di “partito della nazione”, idea che continua a circolare nel dibattito politico attuale. Per il leader della Democrazia Cristiana, il “partito della nazione” non doveva essere un partito pigliatutto che si proclama unico rappresentante della nazione e lascia agli altri partiti le briciole. Guardava piuttosto ad un partito che aveva”un’azione panoramica degli interessi’ e cercava “di subordinarli tutti all’interesse della comunità”,  e soprattutto di indirizzarli a un’opera di giustizia sociale.” (p.308)
Dalla storia della nostra Repubblica emerge che il bipolarismo non riesce a mettere radici e non pare in grado di scalzare la democrazia consensuale. L’ultimo tentativo di instaurare un sistema bipolare, fondato sulla contrapposizione comunismo – anticomunismo, è stato quello di Berlusconi. Ma neppure le nuove leggi elettorali sono riuscite a trasformare il bipolarismo elettorale in bipolarismo politico né tantomeno in bipartitismo. Ad affermarsi è stata piuttosto un’espansione del multipartitismo.  Contemporaneamente, rileva Giovagnoli, la forza residua dei due tradizionali riferimenti ideologico-culturali, destra e sinistra, non è stata sufficiente ad aggregare schieramenti omogenei né a modellare efficacemente il sistema politico” (p. XXI). I governi Monti e Letta che hanno sostituito i governo Berlusconi, hanno indicato entrambi, seppur in modi diversi, un ritorno alla democrazia consensuale.
La lezione che emerge dalla ricostruzione storica di Giovagnoli è dunque di smetterla con lo stucchevole luogo comune che le coalizioni sono fautrici di corruzione, di inefficienza e di instabilità e di abbandonare l’insana illusione che per avere buongoverno sia necessario un partito della nazione con un leader padrone del paese.

Nessun commento:

Posta un commento